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Colloquio-intervista dell’Amb. Massimo Marotti con Meet the Manager.

1. Tim Arango, capo staff del New York Times a Baghdad ha sottolineato come le elezioni appena tenutesi in Iraq siano state piuttosto tranquille, tenuto conto delle particolarissime condizioni del paese e tenuto conto del fatto che sono le prime senza la presenza delle truppe USA. L’affluenza alle urne è stata notevole ed in generale l’impressione che la comunità internazionale ha avuto, è stata quella di una paese che desidera fortemente tornare alla normalità. Tuttavia le difficoltà che il governo incontra nel mantenere l’ordine in un paese di fatto dilaniato dal terrorismo e che non può più contare sui contingenti militari occidentali, sono fortissime.
Anche le elezioni in Afghanistan dello scorso 5 aprile, si sono svolte in un clima relativamente sereno, tuttavia la transizione verso la nomina del successore di Hamid Karzai tra secondo turno e denunce di brogli, si protrarrà più del previsto, bloccando, tra l’altro, la firma del Bilateral Security Agreement. Ciò con tutta probabilità indebolirà ancor di più il processo di formazione del personale militare e di polizia afghano. In questi due paesi la sfida del mantenimento dell’ordine in modo efficace ed autonomo dalle truppe alleate si sta dimostrando molto dura.

Il problema del mantenimento dell’ordine e della sicurezza in un paese complesso come l’Iraq è diventato più arduo al crescere del conflitto in Siria. La vasta area in territorio siriano in cui operano varie milizie che si sono sostituite all’autorità statale non costituisce più un filtro a protezione delle frontiere irachene. La conseguente infiltrazione in Iraq di miliziani ben armati e determinati a occupare parte del territorio iracheno, in aggiunta agli insorti antigovernativi, ha creato una situazione più difficile contro cui le forze armate irachene si sono trovate a fronteggiare un avversario contro cui non avevano sufficienti mezzi, addestramento e motivazioni. L’insurrezione armata tra il 2006 e il 2008 fu arginata dall’azione combinata delle forze americane, dei militari iracheni e soprattutto delle milizie tribali. 6 anni dopo questa equazione non ha funzionato. Di fronte a milizie islamiche che controllano quasi tutta la valle dell’Eufrate e che paiono più agguerrite, oltre all’assenza degli americani l’Iraq paga lo scotto della minore determinazione di tutte le milizie tribali a riprendere il controllo del loro territorio alleandosi con il governo. La divisione politica interna ha ridotto la capacità complessiva irachena di fronteggiare gli attacchi continui.


2. Scrive Giovanni Sartori: “La storia è il mito di Sisifo, ogni generazione ricomincia daccapo. Nessuno di noi nasce civilizzato: il nostro certificato di nascita porta l’anno zero. La nostra età storica, la nostra maturità di uomini del proprio tempo, deve essere sempre riconquistata, la si deve sempre ricuperare: e ogni volta il tragitto si allunga, ogni volta c’è da risalire un poco di più. Talvolta sembra che non reggiamo lo sforzo, che la linea della tradizione occidentale sia diventata troppo lunga, che non riusciamo più a ripercorrerla. Talvolta coglie il sospetto che l’habitat storico sia più civile di quanto siano civilizzati i suoi abitanti, e che le civiltà si disintegrano proprio perché finiscono per sopravanzare i loro protagonisti.” Uno stato che sta fondando adesso la sua modernità, nel senso del suo appartenere ad una modernità di forma e sostanza delle istituzioni, offre ai suoi cittadini, tra tanti problemi, a volte legati anche alla sicurezza ed alla sopravvivenza, una sorta di epoca eroica nella quale si ha la possibilità di incidere in modo marcato e durevole sulla propria comunità. Younis Tawfik sostiene che l’Iraq, a dispetto dei suoi colori e profumi, sia praticamente da sempre un paese velato dalla “tristezza” della mancanza di libertà. Gli iracheni di oggi, hanno l’opportunità di rimuovere questo velo di tristezza. Senza abbandonarsi al facile idealismo, va sottolineato che questa, al netto delle grandi difficoltà, è un’opportunità storica.

La ricostruzione del paese è certamente un’opportunità per la società irachena. In questa terra dove sono nate le città stato e i primi imperi e con esse la civiltà urbana il paragone con la storia millenaria di successi e sconfitte e con le lezioni del passato è allo stesso tempo uno stimolo verso la ricostituzione delle città come motore di progresso e un fardello che può soffocare speranze e volontà. Il contesto regionale non aiuta gli iracheni in questa fase della loro storia. Molti sembrano soffiare sul fuoco della diversità e della frammentazione a alimentano la lotta per il potere, mentre la geografia e la conformazione del paese premia l’unità e la condivisione delle risorse del paese, a cominciare dall’acqua. L’Iraq da oltre 30 anni è passato attraverso guerre e sanzioni con effetti devastanti. È alla ricerca della stabilità perduta per riprendere a crescere. 


3. Il New York Times quasi un anno fa ha realizzato un’interessante inchiesta che metteva in luce come il principale beneficiario attuale del petrolio iracheno non siano gli USA, ma la Cina. Le quantità di petrolio acquistate dagli Stati Uniti sono rimaste sostanzialmente costanti negli anni, mentre a subire un potente incremento sono stati gli acquisti cinesi. Le motivazioni sono piuttosto chiare: il governo iracheno ha imposto condizioni piuttosto sfavorevoli alle compagnie estrattrici che perciò vedono i propri margini ridursi considerevolmente. Ciò costituisce un deterrente per le imprese USA ed in generale per quelle occidentali, ma non per le aziende cinesi che sono pubbliche e non interessate al profitto, ma unicamente ad approvvigionare enormi quantità di petrolio per il colosso rampante dell’Asia, sempre più affamato di energia. La Cina porta in Iraq investimenti massicci e durevoli ed esprime un forte interesse alla stabilità, ciò è certamente un bene per questo paese.

Le società petrolifere internazionali, anche quelle occidentali, sono tutte presenti in Iraq, malgrado le condizioni contrattuali non siano le più vantaggiose. Ma è vero che quello che si produce viene acquistato soprattutto dalla Cina che cerca di riequilibrare la bilancia commerciale acquisendo contratti con offerte concorrenziali. L’Iraq tuttavia ha bisogno di nuove infrastrutture e poiché le paga potrebbe ottenere il meglio della tecnologia disponibile. Spesso le imprese cinesi danno in subappalto le opere e i lavori non sempre vengono terminati o non rispettano gli standard qualitativi attesi. L’effetto degli investimenti cinesi sull’economia del paese quindi non è considerato da tutti gli iracheni sempre positivo. Il paese ha bisogno di sviluppare una governance più moderna che rafforzi i centri si spesa nazionali e locali ed argini il fenomeno della corruzione. Vi sono modelli avanzati di organizzazione economica, come la società statale per la commercializzazione del greggio iracheno, ma la modernizzazione e la crescita dell’apparato statale è una priorità per la stabilità e lo sviluppo del paese. 


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