Scrivere un messaggio destinato ad un pubblico che non lo ascolterà mai, rende ancora più difficile lo sforzo di mettere in parole il dolore, lo straniamento, la sensazione che lo strazio di questi mesi comporti un cambiamento profondo delle nostre vite. Ma se davvero nulla sarà più come prima, dove si troveranno le parole per raccontare quanto avvenuto nell’arco di pochi mesi e che sarà impossibile dimenticare?
Oggi, 2 giugno 2020, ricordiamo il 74mo anniversario della nascita della nostra Repubblica, una giornata che non può che essere marcata dal sentimento di dolore per ciò che il mondo intero, non solo il nostro Paese, sta vivendo, aggravato dalla lontananza forzata dai nostri cari e dall’incertezza riguardo il termine di questa terribile esperienza.
A differenza di un tradizionale discorso per celebrare una ricorrenza che infonde orgoglio, soddisfazione, consapevolezza dell’enorme sacrificio sostenuto da chi ci ha preceduto nel ricostruire, dopo una guerra mondiale e la lotta contro il nazifascismo, un Paese distrutto, in questa occasione non si riesce ad evitare di concentrare il pensiero, e le parole, sulla tragedia che stiamo attraversando.
Ciò che ha colpito tutti noi, ancor più dell’elevatissimo numero delle vittime, è stata l’impossibilità di vivere un momento, intenso, di commiato, civile o religioso, dai nostri cari; anche per questo una delle immagini che più di ogni altra rimarrà impressa nella memoria di noi tutti sarà la fila di camion militari che portavano le salme dei defunti nella notte di Bergamo: era il 18 marzo, data che potrebbe assurgere a simbolo di tutte le vittime del virus. Se mai c’è una morte ancora più insopportabile, è quella vissuta in solitudine, accompagnata solo dai nuovi eroi delle nostre società, i medici ed infermieri, unici a combattere quotidianamente, senza sosta e riposo, stando vicino fino all’ultimo di coloro che non hanno potuto salvare.
Anche nei giorni in cui il dolore sembrava soffocare la speranza, vi sono stati segnali della forza insopprimibile della vita e della voglia di riconquistarla. Come ci insegnano gli uomini di fede, ciò che è decisivo per determinare il suo valore non è la quantità di cose realizzate, ma l’amore con cui è stata vissuta. Quando il prodotto delle nostre azioni si esaurirà, il sentimento con cui le abbiamo effettuate, rimarrà come una traccia indelebile.
Questa terribile esperienza che il mondo intero ha vissuto, e dalla quale cominciamo a vedere la fine, ci ha ricordato alcuni principi fondamentali del vivere civile in società che condividano valori comuni: prima di tutto, l’insopprimibile dignità di ogni vita umana, il dovere di ognuno di noi di tutelare sé stessi, tutelando e rispettando i diritti fondamentali (la vita) altrui.
Malgrado l’inevitabile sensazione di straniamento, quindi, dobbiamo evitare che questa esperienza ci costringa in recinti prima mentali, e poi fisici: bisogna evitare che i confini necessari al contenimento epidemiologico diventino muri di una patologia che vede nello straniero il portatore di contagio.
L’Italia tutta ha dato prova di un’ammirevole disciplina e di una tenuta morale e capacità di adattamento che pochi le avrebbero riconosciuto, basandosi sui tradizionali stereotipi. Adesso, dovremo adattarci alla “nuova normalità” perché si avveri la frase di uno dei Padri dell’Europa, Jean Monnet, che nel 1954, dopo un voto che sembrava costituire la pietra tombale del sogno di pacificazione e, successivamente, di unificazione europea: “ l’Europa si forgerà nelle crisi e sarà la somma delle soluzioni trovate per quelle stesse
crisi”. E’ esattamente ciò che sta accadendo in questi giorni, a livello continentale e nel nostro Paese.
Il Covid-19 ha lanciato all’Italia, a tutti noi, una sfida senza precedenti: siamo tutti esposti e solo tutti insieme possiamo uscirne fuori. Collaborare non è solo nel nostro interesse, ma è un preciso dovere a fronte di quelle garanzie di assistenza equa ed efficace su cui possiamo contare, in quanto cittadini di un Paese democratico e liberale. La responsabilità di milioni non si può imporre con la forza: deve poter contare sullo sforzo volontario e consapevole, quotidiano, dei singoli. E’ questo dato di fatto che distingue i nostri sistemi
liberali dai sistemi dittatoriali.
Gli Italiani sono vittime di stereotipi come poche altre nazioni: tutti credono di conoscere lo “spirito” di oltre 60 milioni di persone. Due aggettivi vengono spesso associati, “socievoli” ed “indisciplinati”. Eppure, nei momenti difficili come la II guerra mondiale, il terrorismo, il covid, abbiamo tirato fuori risorse sorprendenti. Non bisogna mai sottovalutarci. Paragonata a tanti altri paesi, l’Italia è un piccolo lembo di terra, povera di risorse naturali, ma che da 2.500 anni riesce a stare sul palcoscenico della Storia in virtù del
“genius loci” che è espressione delle multiformi e contraddittorie virtù e qualità dei suoi abitanti.
Queste caratteristiche ci hanno permesso di ritrovare, anche grazie alla lotta contro questo nemico invisibile, la consapevolezza e l’orgoglio di quanto l’Italia sia un grande Paese, capace di essere un modello nel mondo non solo per come si mangia, ci si veste, si lavora, si fa arte e musica, ma anche come una Democrazia cura i suoi cittadini e li difende, con ogni mezzo, persino da una
pandemia, magari riprendendo uno straordinario proverbio africano: da soli si va più veloci, insieme si va più lontano.
L’insieme di questi valori di noi Italiani sono altrettanto bene espressi da un fantastico aneddoto citato da Winston Churchill in una intervista concessa ad uno dei più grandi giornalisti italiani, Indro Montanelli: nel pieno della guerra e dei bombardamenti nazisti, Churchill, visitò una zona di Londra particolarmente colpita dalle bombe nemiche e vide appesa ad un negozio di barbiere una targa con la frase che divenne uno dei simboli dello spirito indomito inglese: we are open, it is business as usual. Preso dall’entusiasmo,
gridò che la guerra era qualcosa di infernale, e che, tuttavia, essere alla guida di un popolo come quello inglese lo riempiva di orgoglio e compensava ogni bruttura. Ma, a chi, diversi anni dopo, ripeteva il racconto, aggiungeva: “Nessuno di quelli che stavano con me ebbe il coraggio di dirmi che quel negozio era di un Napoletano di nome Pasquale Esposito!”.
Questa forza d’animo vale anche per il periodo in cui stiamo entrando, dopo i bui mesi trascorsi, leggendo le statistiche quotidiane dei morti, chiedendoci quando avremmo potuto rivedere i nostri cari, godere del loro affetto, riscoprire la gioia “fisica” della loro vicinanza.
Ma la ricorrenza del 2 giugno 2020 deve valere per ricordare il lavoro quotidiano di questi mesi; il rapporto con i colleghi con cui si è vissuto l’esperienza della convivenza, forzata sì per colpa della clausura imposta dai vincoli sanitari, ma arricchita dalla scoperta dell’umanità di ciascuno di loro; il senso di svolgere un ruolo anche in momenti così speciali e, si spera, irripetibili; il rapporto con gli amici, colleghi, interlocutori iracheni e stranieri che hanno vissuto con noi le difficoltà, senza che queste diventassero mai ostacoli insormontabili. Sono questi, solo alcuni, dei ricordi che porteremo con noi al termine della nostra esperienza in questo Paese.
L’Ambasciata d’Italia in Iraq, in questo giorno così speciale vuole quindi esprimere uno tra i tanti auspici che questo periodo di difficoltà inusitata, di tragedie personali, di crisi economica, sono comuni ai cittadini italiani: la speranza che, passata la tempesta, l’Italia si riscopra comunità unita, fondata su valori espressi nella nostra Costituzione, recepiti e tradotti nei Trattati europei, esattamente come ciascuno dei membri di questa Rappresentanza italiana all’estero sente di far parte di un organismo unito e vitale, che opera per raggiungere obiettivi condivisi. Certamente, abbiamo appreso che questi momenti si possono superare solo se li affronteremo uniti per risollevarci insieme, per festeggiare l’anno prossimo il ricordo della nascita della nostra Repubblica,
democratica, libera, costituzionale, senza dimenticare, con dolore, chi non sarà più con noi.